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UN POLIZIOTTO (GRATIS) PER LA CITTÀ

(di Stefano Lorenzetto, drugstore L’Arena)

Non potendo nominare il commissario Maigret, sickness che in quattro e quattr’otto avrebbe fatto piena luce sui rimborsi spese del sindaco uscente Ignazio Marino, stuff il premier Matteo Renzi ha pensato bene di affidare la gestione della capitale, travolta dagli scandali, a un commissario straordinario che proviene dai ranghi della Polizia di Stato, il prefetto Francesco Paolo Tronca. Il quale, dopo essere stato ufficiale della Guardia di finanza, superò nel 1977 il concorso di ammissione nella Pubblica sicurezza e diventò commissario a Varese. Il fatto che a Roma sia stato necessario mettere il Comune nelle mani di un poliziotto finanziere o di un finanziere poliziotto, fate voi, desta qualche apprensione. Anche il luogo prescelto per il primo atto pubblico successivo all’insediamento – il cimitero del Verano, in occasione della visita di papa Francesco per la Commemorazione dei defunti – non sembra di buon auspicio. Ma tant’è: in troppe città italiane, ormai, la gente ha la sensazione che la legalità sia morta e che le uniche oasi sicure siano rappresentate da prefetture, questure,caserme dei carabinieri e palazzi di giustizia. Anche ammettendo che Verona rimanga un’isola felice, le cicatrici degli altri dovrebbero insegnarci la prudenza, come predicava San Girolamo.Taluni indizi premonitori che si colgono dalle nostre parti non mi sembrano affatto tranquillizzanti. Provo a riassumerne alcuni. Il vicesindaco è finito in carcere e si è visto irrogare una pena di 5 anni per corruzione.Dopo la prima inchiesta del 2013,che ha portato alle condanne del direttore generale e di due funzionari dell’Agec, a Procura ha acceso per la terza volta i riflettori sull’azienda che gestisce gli edifici comunali.Èdi questa settimana la notizia dell’apertura di un fascicolo anche sull’Amt,per contributi ad associazioni artistiche, rimborsi spese e consulenze (sui quali indaga pure la Corte dei conti). La Direzione distrettuale antimafia di Bolognahadispostoilsequestro di due ditte ubicate a Ponton e a Roverchiara, che sarebbero state gestite da prestanome di alcuni boss calabresi. La nostra provincia è la seconda nel Veneto per numero di beni immobili, già 25, confiscati alle organizzazioni criminali. In un’informativadeicarabinieri di Crotone si legge che una famiglia della zona di Capo Rizzuto opera su Verona «negli appalti pubblici» e che «dal complesso delle intercettazioni sono emersi i rapporti» con «amministratori locali di Verona». Non è finita. Il nuovo prefetto Salvatore Mulas ha firmato due interdittive antimafia per impedir ead aziende locali di partecipare a bandi pubblici e ha osservato: «Se la ’ndrangheta è riuscita ad arrivare in Germania, volete che non riesca ad arrivare nel Nord Italia?». Altre sette interdittive erano state emanate dal precedente prefetto, Perla Stancari, fra il 2011 e il 2015. L’ex procuratore capo Guido Papalia ha dichiarato a Telearena che Verona «fa gola alle mafie» e il suo successore, Mario Giulio Schinaia, ha concordato. Un mese fa la presidente della Commissione antimafia, Rosy Bindi, è venuta in città e ha denunciato: «Qui in particolar modo c’è la ’ndrangheta. Negare non serve a nessuno, vigilare serve a tutti». Ecco, siccome mi sento ricompreso fra quei «tutti», ho ritenuto mio dovere offrire a tre pubblici amministratori di prima grandezza operanti in questa regione la collaborazione gratuita, e sottolineo gratuita, di un esperto davvero speciale, un ex poliziotto ed ex questore, paragonabile come curriculum al commissario straordinario di Roma. L’ho fatto a partire dal 22 novembre2013. Due anni fa.Ovviamente ho prima chiesto l’assenso dell’interessato, il quale,bontà sua, ha dato la disponibilità a ricoprire incarichi istituzionali a titolo volontaristico. È stato un test assai istruttivo.Per non tenervi sulle spine, vi dico subito l’esito: tre buchi nell’acqua. Il personaggio in questione si chiama Antonino D’Aleo, Nino per gli amici, nato a Roma nel 1950, da una vita veronese d’adozione, laureato in giurisprudenza, avvocato. Funzionario di polizia dal 1978, ha ricoperto l’incarico di capo di gabinetto e poi di dirigente della Squadra mobile nella questura cittadina. Ha indagato su delitti efferati e assicurato alla giustizia in un solo colpo 103 narcotrafficanti con un’operazione coordinata dall’allora procuratore Papalia. È stato vicequestore a Padova, dirigente del compartimento Polfer di Piemonte e Val d’Aosta, questore a Sondrio e a Mantova. Una legge insensata ha costretto D’Aleo ad andare in pensione a 63 anni. Da allora è afflitto da una sindrome che definirei di vedovanza: gli mancano il suo lavoro, i suoi poliziotti, il contatto con la gente, la quotidiana consolazione di coricarsi la sera sapendo d’aver fatto qualcosa di buono per il Paese. In una parola, si sente inutile. Uno Stato che fa provare questo sentimento a un suo leale servitore, dopo avergli chiesto per 36 anni di mettere a repentaglio ogni giorno la propria vita,andrebbe infilato nel Bravosimac e reimpastato. C’è di più. La famiglia D’Aleo una vita l’ha sacrificata per davvero a questo Stato: quella di Mario, fratello di Nino, carabiniere, medaglia d’oro al valor civile.Comandava la Compagnia di Monreale, in Sicilia, dove aveva preso il posto del capitano Emanuele Basile, ucciso con sette colpi di pistola alla schiena mentre, tenendo fra le braccia la figlia di 4 anni,rientrava in caserma dopo aver partecipato alla festa del Santissimo Crocifisso. Il capitano Mario D’Aleo aveva appena 29 anni quando il 13 giugno 1983 fu trucidato da quattro killer di Cosa nostra a Palermo, davanti alla casa della fidanzata. Con lui caddero gli appuntati Giuseppe Bommarito e Pietro Morici. «Gli telefonai verso le 9 di sera. Volevo tirargli le orecchie perché s’era dimenticato di farmi gli auguri per il mio onomastico, Sant’Antonio. Lo seppi così che l’avevano ammazzato», mi ha raccontato il fratello. Mario D’Aleo fu assassinato per ordine di Totò Riina. La sua colpa? Pochi mesi prima dell’arrivo a Monreale, aveva arrestato il famigerato killer Giovanni Brusca, condannato per oltre un centinaio di omicidi(anche se lui personalmente sen’è attribuito addirittura 200), fra cui quelli del giudice Giovanni Falcone,della moglie Francesca Morvillo e dei tre agenti della scorta,dilaniati da un’esplosione a Capaci, e del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio di un pentito, strangolato e poi sciolto nell’acido. L’eredità dell’eroico capitano è stata raccolta da un nipote, figlio di Nino, oggi anch’egli capitano dei carabinieri. È presentando queste luminose referenze che due anni fa ho prospettato a un’autorità cittadina di arruolare l’ex questore quale civil servant a costo zero. Poteva diventare un controllore negli enti, una sorta di supervisore che va per uffici, ascolta funzionari e dipendenti, legge le carte,monitora le attività,insomma un uomo di fiducia che fa quello che un poliziotto ha sempre fatto – indagini – e poi riferisce. Risposta: «Può essere davvero una buona idea». Passa meno di un mese e la mia proposta viene realizzata. A Piacenza, però. Dove il sindaco Paolo Dosi decide di avvalersi dell’esperienza di Michele Rosato, ex questore di Verona, per la sicurezza in città (salvo rimangiarsi la parola 44 giorni dopo, sostenendo che la legge Delrio non lo consentiva). Torno alla carica nel giugno dell’anno seguente. Stavolta D’Aleo viene ricevuto dall’autorità in questione e si sente rinnovare l’apprezzamento, con la promessa che l’ipotesi del suo ingaggio come volontario preposto alla legalità sarebbe stata attentamente vagliata. Campa cavallo. Passa un altro anno. E così lo scorso 22 giugno decido di accompagnare io D’Aleo, per la seconda volta, dal notabile che tanta considerazione affetta nei suoi confronti ma poi non fa nulla. Nuove rassicurazioni. Decisioni, nessuna. A tutt’oggi, manco una risposta di cortesia. Il testè proseguito in Regione, sempre ai massimi livelli. Qui pareva che D’Aleo potesse essere utilmente impiegato in un organismo di controllo presieduto da Gian Carlo Caselli, ex procuratore nazionale antimafia. Ricampa cavallo. L’ultima segnalazione l’ho fatta al presidente di un ente cittadino, lambito fra l’altro da un’inchiesta giudiziaria. Anche qui grande interesse e disponibilità. A parole. Nei fatti, meglio che D’Aleo continui a vigilare da pensionato sulla propria casa. Allora sono giunto a questa conclusione: nelle stanze in cui vengono spesi i nostri denari, un ex poliziotto non lo vogliono proprio fra i piedi.

Ma sono sempre pronto a ricredermi.

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