Come abbiamo anticipato nel precedente articolo, la 19esima edizione del simposio di studi “Periti Day”, organizzato a Palazzo Galli-Banca di Piacenza dalla Società Medico Chirurgica, presieduto da Carlo Mistraletti e con conclusioni del prof. Manfredi Saginario, ha unito il ricordo del medico piacentino Pier Francesco Periti, scomparso il 26 dicembre 1998, alla trattazione di temi multidisciplinari che caratterizzano la complessità della nostra società. La cortese disponibilità dei relatori ci consente di pubblicare stralci o sintesi dei loro interventi. Di seguito presentiamo buona parte dell’intervento dell’avvocato Corrado Sforza Fogliani sul tema “Meritocrazia tra legge, Costituzione e Morale”. Nella Costituzione italiana il riferimento al merito, pur non esplicitamente menzionato, è continuo. L’art. 3, comma 2, prevede che vengano rimossi gli ostacoli che, “limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona”. Impedire la limitazione dell’eguaglianza equivale a dire che va assicurato che, in condizione di eguaglianza, ciascuno abbia il suo. E’ lo stesso principio che il liberale Luigi Einaudi esprime nel suo primo messaggio alle Camere da (primo) Presidente della Repubblica: “Garantire a tutti, qualunque siano i casi fortuiti della nascita, la maggior eguaglianza possibile nei punti di partenza”, così che ciascuno possa (se lo voglia) raggiungere i risultati che le sue capacità, e la sua volontà, gli consentano di raggiungere. L’art. 34 della Costituzione, poi, stabilisce che gli studenti “capaci e meritevoli” possano (attraverso borse di studio ed altro) raggiungere i gradi più alti degli studi. Dal canto suo, il successivo art. 36 impone che al lavoratore venga corrisposta una retribuzione proporzionata alla qualità e alla quantità del suo lavoro. Altrettanto, a condizioni di eguaglianza deve ispirarsi la possibilità di accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive (ove le condizioni di eguaglianza devono essere funzionali a quanto si è già detto a proposito dell’art. 3) mentre la dottrina, costituzionalista e giuslavorista, è unanime nel ritenere che l’ammissione alla P.A. a titolo di suo componente debba trovare alla propria base il criterio meritocratico (pubblico concorso), alla pari della progressione in carriera (cfr. S. Cassese, Il principio del merito e la stabilità degli impiegati). La meritocrazia, dunque, è non solo prevista ed accettata, ma prescritta dalla Costituzione. E proprio per questo ha destato osservazioni diverse il pensiero che il Papa Francesco – in visita pastorale all’Arcidiocesi di Genova – ha espresso il 27 maggio 2017 durante un suo incontro con i lavoratori dello Stabilimento Ilva. Ad un lavoratore che gli aveva chiesto consiglio sottolineando che “negli ambienti di lavoro prevalgono la competizione, la carriera, gli aspetti economici”, il Papa ha risposto criticando anzitutto la competizione e testualmente aggiungendo (comunicato ufficiale della Sala stampa della Santa sede B0358): “Un altro valore che in realtà è un disvalore è la tanto osannata «meritocrazia» . La meritocrazia, al di là della buona fede che tanti invocano, sta diventando una legittimazione etica della diseguaglianza. Il nuovo capitalismo tramite la meritocrazia dà una veste morale alla diseguaglianza, perché interpreta i talenti delle persone non come un dono: il talento non è un dono secondo questa interpretazione: è un merito, determinando un sistema di vantaggi e svantaggi cumulativi. Così, se due bambini alla nascita nascono diversi per talenti e opportunità sociali ed economiche, il mondo economico leggerà i diversi talenti come merito, e li remunererà diversamente. E così, quando quei due bambini andranno in pensione, la diseguaglianza tra di loro sarà moltiplicata”. Papa Francesco ha così proseguito, sempre testualmente: “Una seconda conseguenza della cosiddetta «meritocrazia» è il cambiamento della cultura della povertà. Il povero è considerato un demeritevole e quindi un colpevole. E se la povertà è colpa del povero, i ricchi sono esonerati dal fare qualcosa”. Queste, dunque, le parole del Pontefice. A proposito delle quali, per un cattolico che non le condivida (ed è il mio caso), si pongono – prima del merito della risposta – due questioni preliminari: se sia moralmente consentito considerare le stesse in senso critico; se sia moralmente legittimo esprimere pubblicamente il proprio pensiero al loro proposito.
SUL PRIMO PROBLEMA. L’infallibilità del Papa ricorre in presenza della solenne definizione ex cathedra di una verità di fede o di morale e, ancora, quando egli annunci una verità che sia stata sempre creduta e ammessa nella Chiesa. Non è, all’evidenza, il caso nostro. Ricordiamo anzi che l’allora card. Ratzinger ebbe a sottolineare che lo stesso Concilio Vaticano II non ha definito alcun dogma.
SUL SECONDO PROBLEMA. Il canone 212 stabilisce che “Tutti i fedeli, consapevoli della propria responsabilità, sono tenuti ad osservare con cristiana obbedienza ciò che i sacri Pastori, in quanto rappresentano Cristo, dichiarano come maestri della fede o dispongono come capi della Chiesa” (1° comma). Non è, anche per quanto già detto sulla verità di fede, il nostro caso. Aggiunge ancora lo stesso canone: “I fedeli hanno il diritto, e talvolta anche il dovere, di manifestare ai sacri Pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa e di renderlo noto agli altri fedeli, salva restando l’integrità della fede e dei costumi e il rispetto verso i Pastori, tenendo presente l’utilità comune e la dignità delle persone” (3° comma – il 2° riguarda solo il cosiddetto diritto di petizione). Che è il nostro caso, con particolare riferimento alle fattispecie in cui si deve obbedienza, ed al bene della Chiesa.
NEL MERITO. Pur animato da buone intenzioni, Papa Francesco assimila, comunque e totalmente, la meritocrazia (e questo è il punto focale del suo ragionamento) all’arbitrarietà della distribuzione dei talenti naturali. Mentre, se questo può in parte essere vero, non è in ogni caso sempre, e mai del tutto, vero, trascurandosi in questo caso che – come all’inizio detto – il merito è una proprietà dell’atto umano, che è sempre – per definizione – espressione di volontarietà. E senza quest’ultima, nessun talento è messo a profitto. Tutto questo giustifica di per sé, da un punto di vista morale, la meritocrazia. E con riguardo, poi, all’utilità comune (come presupposto) e di cui al canone richiamato, è solo da notare che la selezione naturale esclusivamente basata sui talenti potrà essere evitata, nei casi di chi pur dotato sia privo di mezzi, attraverso il principio e il metodo einaudiano, e già richiamato, dell’eguaglianza (per quanto umanamente fattibile) dei punti di partenza – l’unico corretto sistema di rivoluzione sociale –, mentre non può non evidenziarsi quante siano le contrarietà che mette in campo la posizione opposta a quella meritocratica e così: l’assistenzialismo, l’egualitarismo fine a sé stesso, la nociva indolenza, l’appesantimento della burocrazia deputata a governare il settore, l’abbandono di ogni incentivo al miglioramento e quindi l’ingiusta penalizzazione statalista dei meritevoli. Che è come dire un rimedio (generale e generalizzato) che è ben peggiore del male che si intenderebbe curare. Non a caso è questa, in gran parte, la situazione di un Paese come il nostro, nel quale il buonismo – nella scuola in ispecie, ma anche nel lavoro – impera, generando – non in tutti, ma in molti, soprattutto appartenenti alle nuove generazioni – lassismo, mancanza di disciplina interiore in ispecie, servitù volontaria al pensiero unico internazionale e al politicamente corretto, distruzione di valori, materialismo. L’edizione 2016 del Meritometro, elaborato dal Forum della meritocrazia, colloca l’Italia all’ultimo posto in Europa dopo Finlandia, Norvegia, Danimarca e Svezia (che guidano la classifica), ma anche dopo Germania, Gran Bretagna e Francia e altresì dopo Polonia e Spagna. Eppure l’Italia è il Paese, almeno formalmente e ufficialmente, più cattolico al mondo. E Dio è meritocratico, come meritocratica è (al pari forse di nessun’altra istituzione terrena) la sua Chiesa, fondata – e duratura proprio perché fondata – sul metodo della cooptazione, ad ogni livello. Dio è meritocratico, a dimostrarlo il piacentino Gotti Tedeschi ha dedicato una pubblicazione, in 12° ca, di 382 pagine (ed. Giubilei Regnani, prefazione Nicola Bux). Un testo che è un completo antidoto all’etica propria della teologia della liberazione, che – materialista – “insegna” che la miseria morale si vince eliminando la miseria materiale, che – quindi – diventando meno poveri si diventa anche più buoni, “essendo l’inequità (attenzione, non l’iniquità) nella ripartizione delle risorse l’origine di tutti i mali”. Ritorniamo con questo all’inizio del discorso sulla meritocrazia, ma anche alla riflessione che non pare proprio che diventando più agiati (come indubbiamente è avvenuto, già nel secolo scorso, in tutto il mondo, per effetto di un sistema economico che ragione vorrebbe non fosse criticato almeno prima che se ne sia individuato uno migliore), diventando più agiati – si diceva – non pare proprio che i costumi siano migliorati, anzi. Dio – per fortuna – è meritocratico, come con un continuo martellamento Gotti Tedeschi sostiene nel suo testo: se la fede – egli scrive, tra l’altro – fosse spiegata, imposta e accettata dalla pura ragione non sarebbe fede, sarebbe pura ragione e la si otterrebbe senza sforzo e merito. E ancora: come dice Sant’Agostino (e Gotti Tedeschi riporta) Dio può aver deciso che anziché non fare esistere il male, fosse meglio che dal male potesse essere tratto il bene (felix culpa). In pratica, facendo emergere il merito nell’esercizio delle virtù. Al pari: per i protestanti la salvezza si ottiene solo per fede, senza opere, mentre per i cattolici le opere sono necessarie e sono realizzabili con il merito. Più sono difficili da realizzare – sottolinea Gotti Tedeschi – più merito viene riconosciuto. Proprio perché Dio è meritocratico.