Sessant’anni fa moriva a Chicago Enrico Fermi, forse l’icona massima dei cervelli in fuga di casa nostra, costretto a riparare negli Stati Uniti a causa delle leggi razziali approvate nel 1938 dal regime fascista dopo aver ricevuto il premio Nobel per la fisica a Stoccolma. Pochi altri scienziati italiani hanno conquistato l’immaginario collettivo allo stesso modo Fermi, sospeso tra il mito del ricercatore isolato dalla realtà che indaga i segreti più intimi del nucleo atomico, fino a partecipare alla costruzione della prima bomba atomica, e l’uomo che deve fare i conti con il mondo dei suoi tempi, con l’avvento di nazismo e fascismo e la rapida accelerazione verso il baratro delle seconda guerra mondiale.

Una visione forse troppo letteraria, dato che Fermi è stato innanzitutto una figura rivoluzionaria nel panorama della fisica italiana dell’epoca, in grado di coniugare teoria e sperimentazione in un approccio che sarà un po’ il suo marchio di fabbrica e lo porterà a scoperte di rilevanza storica.

Nato a Roma il 29 settembre 1901 da genitori di origine piacentina, Fermi si era poi laureato cum laude in fisica a Pisa nel 1922. Il suo nome è indelebilmente legato a quello dei ragazzi di Via Panisperna, dove aveva sede l’Istituto di fisica dell’Università “La Sapienza” di Roma e dove tra la metà degli anni venti e la fine degli anni trenta un gruppo di giovani ricercatori, raccolti proprio intorno alla figura di Fermi, aveva portato la fisica italiana al massimo splendore. Eppure, ancora prima dell’esperienza romana Fermi aveva già raggiunto un risultato epocale.

Nel 1926, il fisico aveva elaborato una nuova teoria statistica con cui descrivere una grande famiglia di particelle – tra cui per esempio l’elettrone e il protone – oggi chiamate appunto con il nome di “fermioni”. Grazie a quella scoperta, sempre nel 1926 Fermi aveva ottenuto la cattedra di fisica teorica presso l’ateneo della capitale, la prima istituita in Italia. Quella cattedra era stata fortemente voluta dal senatore Orso Maria Corbino, direttore dell’istituto di fisica dell’ateneo romano, personaggio molto influente nella comunità scientifica e in quella politica, nonché grande sostenitore di Fermi, nel quale vedeva la persona adatta a far rinascere la fisica italiana. E aveva visto giusto, come dimostrò un’altra grande scoperta del 1933.

In quell’anno Fermi descrisse un meccanismo di decadimento del nucleo atomico, noto come “decadimento beta”, che per la prima volta suggeriva l’esistenza di una forza allora sconosciuta che agiva a livello nucleare. Quella che all’epoca era chiamata “interazione di Fermi”, pietra miliare della fisica teorica, oggi non è altro che una manifestazione della cosiddetta “forza debole”, una delle quattro forze fondamentali che sappiamo governare l’universo (le altre tre sono elettromagnetismo, gravità e forza forte).

In quegli stessi anni i ragazzi di Via Panisperna avevano iniziato a studiare la radioattività artificiale scoperta nel 1934 dai francesi Irène Curie e suo marito Fréderic Joliot bombardando fogli di alluminio con nuclei di elio, composto da due neutroni e due neutroni. Fermi aveva deciso di bombardare con soli neutroni tutti gli elementi chimici nella speranza di arrivare prima degli altri a un quadro teorico e sperimentale completo del nuovo fenomeno. Quella strategia tracciò la strada verso Stoccolma, dove nel 1938 Fermi venne premiato con il Nobel per la fisica per aver dimostrato l’esistenza di nuovi elementi radioattivi prodotti dall’irradiazione di neutroni e per la scoperta di reazioni nucleari ottenute con neutroni lenti. Qualcosa però stava cambiando e la fine del gruppo di Via Panisperna era vicina.

Le leggi razziali e il dilagante antisemitismo europeo avevano lasciato un segno indelebile sullo scienziato, sposato con l’ebrea Laura Capon. La fuga dall’Italia era ormai inevitabile e l’occasione propizia si presentò proprio alla cerimonia di consegna del Nobel a Stoccolma. Dopo aver ritirato il premio, Fermi e famiglia si diressero a Copenaghen, da dove il 24 dicembre 1938 salparono verso New York. La lontananza dai suoi ragazzi di Roma, però, non avrebbe impedito a Fermi di regalare all’umanità un nuovo straordinario traguardo. Negli Stati Uniti, lo scienziato fuggito dall’Italia fascista si dedicò principalmente allo studio della fissione nucleare, la reazione in cui nuclei atomici vengono spaccati liberando energia, scoperta dai tedeschi Otto Hahn e Fritz Strassman a Berlino alla fine degli anni trenta.

Il 2 dicembre 1942, negli scantinati dell’Università di Chicago, Fermi riuscì a far funzionare la prima pila a fissione costruita dall’uomo, a cui era arrivato sviluppando idee e concetti fondamentali della fisica dei futuri reattori nucleari. Con il risultato di Chicago Fermi aveva portato l’umanità nell’era atomica. Il mondo non sarebbe stato più lo stesso come avrebbero dimostrato le bombe atomiche sganciate dagli Stati Uniti su Hiroshima e Nagasaki nell’agosto 1945. La distruzione delle due città giapponesi era il punto di arrivo dell’immane progetto di ricerca statunitense, nome in codice Manhattan Project, che aveva portato alla costruzione della prima bomba nucleare e a cui lo stesso Fermi aveva partecipato, non senza profondi dubbi etici.

Dopo la seconda guerra mondiale, Fermi si dedicò a studi teorici sulla fisica delle particelle elementari, raggiungendo risultati di rilievo. Nel 1949 lo scienziato, ormai cittadino americano, tornò in Italia per una serie di lezioni e un congresso internazionale. La sua casa però erano gli Stati Uniti, dove il 28 novembre 1954 morì per un tumore allo stomaco. Oggi la sua eredità intellettuale è ricordata anche da un telescopio spaziale in orbita attorno alla Terra lanciato nel 2008. Il Fermi Gamma-ray Space Telescope della Nasa, con un’importante partecipazione italiana di Asi, Inaf e Infn, scruta l’universo per indagare fenomeni cosmici a energie elevate.