Tempo fa presi spunto da un libro di Sergio Rizzo in tema della mediocrità per riflettere sui concetti di competenza e merito. Molti separano l’Italia, dove si premia la mediocrità, dal resto del mondo occidentale, che avrebbe in alta considerazione il merito. Nulla di più facilmente confutabile, poiché la mediocrazia è al potere ovunque. E, se scomodiamo il pensiero di John Stuart Mill, sappiamo da 160 anni che “il mondo tende, in generale, a fare della mediocrità la potenza dominante dell’umanità”.
Secondo Confucio “la mente dell’uomo superiore ha familiarità con la giustizia; la mente dell’uomo mediocre ha familiarità con il guadagno”. Non c’è quindi da stupirsi se il neoliberismo – e la religione unificante del denaro – esaltino il merito e, soprattutto, si prodighino con puntiglio alla sua concreta gestione, santificata dal concetto di eccellenza. E, come già osservò lo stesso Stuart Mill, si valutano talvolta come eccellenti le persone che non fanno assolutamente altro che copiarsi a vicenda. La parola meritocrazia fu coniata negli anni ’50 del ‘900 da un politico e sociologo inglese, Michael Young che in un saggio del 1958, The Rise of the Meritocracy, immaginò il Regno Unito sotto il dominio di un governo che favorisse soprattutto intelligenza e perspicacia. Combinò la parola merit di origine latina (da mereō) con il suffisso di origine greca –cracy (dominio, potere, regola). Secondo Young il merito avrebbe dovuto promuovere l’eguaglianza delle opportunità di essere diseguali, ma durante il governo Blair, lo stesso Young realizzò come quel vocabolo fosse poi largamente usato per dare sostegno a un’ideologia che giustifica moralmente i più dotati rampolli delle classi alte a danno dei figli delle famiglie umili. The Rise of the Meritocracy. L’idolatria del merito che, con il nuovo millennio ha iniziato a permeare la società italiana, ha avuto parecchi effetti negativi e poche applicazioni pratiche. Dalle nostre parti il merito non è stato declinato con lo spirito della partita di rugby che immaginava Adam Smith, ma piuttosto con le regole di una partita di football americano diretta da Byron Moreno, l’arbitro che nel 2002 sentenziò l’eliminazione dell’Italia di Trapattoni dalla Coppa del mondo in Corea. Il progressivo e ossessivo sforzo per valorizzare il merito produce effetti del tutto contrari a quanto auspicabile: conformismo, gerarchie, burocratizzazione. E il principio di Peter, formulato nel 1969 dallo psicologo canadese assieme all’umorista Raymond Hull, afferma che “in una gerarchia, ogni dipendente tende a salire di grado fino al proprio livello di incompetenza”. Perché ciò accada non è necessario che qualcuno sia particolarmente inadeguato: le burocrazie tendono semplicemente a essere peggiori della somma delle loro parti. In una intervista rilasciata tempo fa, il maggior divulgatore scientifico italiano, Piero Angela, sosteneva che “il problema dell’Italia è un problema morale, che non si può risolvere in cinque minuti. Ogni giorno leggiamo di casi di corruzione. Non sono solo politici, palazzinari, delinquenti: sono anche avvocati, giudici, uomini della guardia di finanza, dipendenti pubblici che truffano lo stato per cui lavorano. Non ci sono punizioni per chi sbaglia. E non ci sono premi per chi merita. Un Paese così non può funzionare. È un Paese morto”. Come Angela, molti intellettuali implorano una maggiore meritocrazia, a cuore aperto e con buoni argomenti e in vista di obiettivi onesti, del tutto condivisibili. Ma spesso sfugge a costoro l’ingiustizia che il sistema meritocratico può generare nella società, proprio per le difficoltà di applicarlo in modo giusto e partecipato. E tenda a penalizzare l’eterodossia, una componente necessaria dell’ecologia sociale. Più modestamente, a molti cittadini onesti e laboriosi piacerebbe non tanto essere premiati, ma semplicemente non essere puniti dal modello di premi e sanzioni che viene adottato e, di volta in volta, adattato alle circostanze. E a molti sfugge come, almeno in campo scientifico, la valutazione meritocratica, canonizzata dalla primazia del mercato, sia geneticamente in debito con la sponda opposta. Nel 1981, Victor Yanovsky, scienziato sovietico assai allineato al regime, scrisse: “La scientometria […] è di grande importanza per i Paesi socialisti dove le istituzioni scientifiche sono guidate e finanziate dallo stato”.